Dai pantaloni da yoga alle giacche in pile: i tessuti sintetici sono una delle maggiori fonti di inquinamento delle acque e dell'ambiente.

I maggiori marchi di abbigliamento scelgono i tessuti sintetici, diventando responsabili per gran parte dell'inquinamento delle acque.

Nel dicembre del 2015, il Presidente Obama firmò il "Microbeads Free Water Act", un atto che vietava l'uso di microsfere di plastica come esfolianti nei prodotti per la cura della persona. Nonostante ciò, stupisce ancora l'enorme quantità di inquinamento da plastica derivato proprio da questi prodotti.

Per lottare contro le microsfere, si sono coalizzate numerose organizzazioni non governative nazionali stilando piani strategici. Il nuovo obiettivo sono le microfibre che provengono dal lavaggio in lavatrice degli indumenti sintetici. Le spirali oceaniche frantumano le grandi plastiche in pezzi più piccoli, esattamente come fanno le lavatrici, forse in modo addirittura più efficiente.

Quando si lava l'abbigliamento sintetico come il poliestere, le minuscole particelle di microfibre di plastica, finiscono all'interno dello scarico, divenendo una delle maggiori fonti di inquinamento. In una recente relazione dell'Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN), si afferma che il lavaggio degli indumenti è responsabile per il 33% delle emissioni di microplastiche nell'ambiente.

Per i marchi di abbigliamento, l'inquinamento da microfibre rappresenta una minaccia esistenziale per la loro linea e la rovina della loro reputazione pro-ambiente. Questo perché i derivati dai combustibili fossili e i tessuti plastici stanno diventando il tessuto di scelta per la moda sportiva per le loro prestazioni.

Già, il 60% di tutti gli indumenti sulla terra sono in poliestere. Che si tratti di pantaloni da yoga, giacche in pile o biancheria intima, i vestiti in plastica sono ormai la normalità, diventando la causa dell'inquinamento delle nostre acque e del suolo. Eppure, la domanda di tessuti sintetici continua ad aumentare e il problema rischia di peggiorare.

Per dare un'idea, si stima che più di 1,4 milioni di fibre hanno già inondato i nostri mari, una cifra calcolata da George Leonard, scienziato presso l'Ocean Conservancy, sulla base di un'estrapolazione di dati già esistenti. Basta considerare i dati mostrati dal governo USA: più di 103 milioni di lavatrici degli Stati Uniti fanno una media di 8/10 carichi di bucato a settimana. Ciascun carico rilascia circa 1900 fibre a lavaggio, e 250.000 a lavaggio di pile.

Le microfibre sono quindi una grande fonte di inquinamento, ma sono realmente pericolose? Sicuramente bene non fanno: molti scienziati infatti sono preoccupati e secondo loro occorre trovare una soluzione. Ciò che è noto è che il plancton, le cozze e le vongole mangiano le fibre che possono causare l'occlusione dell'intestino e altri gravi danni all'apparato digerente. Sappiamo che un pesce su quattro acquistato dal mercato del pesce in California ha ingerito la microfibra. Sappiamo inoltre che le microfibre attirano altre sostanze chimiche inquinanti presenti nell'acqua e dopo l'ingestione queste tossine possono fuoriuscire dalla plastica nei tessuti di un organismo. Alcuni capi di abbigliamento sono trattati con sostanze chimiche pericolose che si disperdono in acqua nel corso del tempo.



I marchi più famosi hanno riconosciuto l'inquinamento in microfibra: la società di abbigliamento Patagonia ha commissionato uno studio per esaminare i contributi dei loro prodotti al problema. Ma solo pochi marchi hanno fatto progressi significativi sul mitigare l'impatto dei loro prodotti sull'ambiente. Dopo sei anni dalla pubblicazione del primo studio che dimostrò l'inquinamento da microfibra, nessuna azienda di abbigliamento ha abbandonato le fibre sintetiche nella realizzazione dei loro prodotti.

Al contrario, vi è stato un aumento dell'uso di tessuti sintetici, in particolare il poliestere.
Le imprese amano questi materiali per le loro performance: respingono l'acqua, favoriscono la traspirazione e non si allungano. Ma, sebbene sia economico, il poliestere ha un'intensità doppia di carbonio rispetto a materiali come il cotone.

Un sistema sarebbe quello di confezionare gli abiti attraverso il riciclo delle bottiglie di plastica che finiscono nelle acque, diventato una tendenza per quelle imprese "activewear blu" che vogliono rappresentare la sostenibilità. Sebbene gli sforzi siano positivi, l'effetto su acqua e terreno rimane lo stesso. E' chiaro che molte aziende che non esaminano i loro prodotti non hanno ancora tirato fuori la testa dalla sabbia.

Utilizzare un sacchetto "filtro" all'interno della lavatrice potrebbe essere una soluzione tappabuchi che potrebbe fungere da incipit. Recentemente è stata progettata una borsa per bloccare le microfibre che fuoriescono durante il lavaggio di questi tessuti. Ma funzionerebbe se le imprese sovvenzionassero l'acquisto della borsa.

La soluzione più ovvia, sarebbe quella di interrompere l'utilizzo dei tessuti sintetici: ci sono fonti naturali, come il bambù, che può essere filato in un sistema a circuito chiuso, in cui le sostanze chimiche utilizzate abbattono la fibra cellulosica e vengono catturate, riutilizzate senza finire nell'ambiente.

Ciò che potrebbe fermare le fibre e impedire l'entrata nei bacini è sicuramente l'aggiornamento di tutti i depuratori sul trattamento delle acque reflue per la filtrazione dell'effluente finale da microfibre prima che vengano scaricate. Una soluzione ottima, ma che richiede miliardi di dollari per le infrastrutture e solleva altre questioni, come cosa fare dei biosolidi.

Tutti problemi che dovrebbero essere scaricati su chi li ha creati, ovvero le multinazionali del tessile, che invece preferiscono tingere metaforicamente di verde le proprie produzioni con soluzioni mediatiche di scarso valore pratico (vedi articolo su greenwashing Adidas). Nessun marchio di abbigliamento ha scelto deliberatamente di realizzare prodotti che inquinano l'ambiente, ma ora sono costretti a risolvere il problema.