L'impatto ambientale dell'industria della moda è sotto accusa, per questo motivo crescono il movimenti di consumatori critici dell'abbigliamento, in netto contrasto con le indicazioni consumerecce dei social media. Ma il sistema del riuso è in crisi.

Eurostat dice che l'Italia spende tantissimo per abbigliamento e scarpe: più di 1100 euro pro capite. E il settore del riuso sta crollando sotto una montagna di prodotti-immondizia.

Secondo l'agenzia di statistica Eurostat, l'ente che raccoglie ed elabora dati dagli Stati membri dell'Unione europea a fini statistici, negli ultimi dieci anni in Italia non c'è stato nessun crollo degli acquisti di vestiti e scarpe.

In particolare, nel 2016, anno cui si riferiscono i dati più recenti, la quota di spesa delle famiglie italiane destinata all'abbigliamento è stata pari al 6,2% del totale, che la mette ai vertici della classifica per spesa relativa dopo solo Estonia e Portogallo.

Dieci anni fa l'Italia spendeva poco di più (il 6,8%) in termini relativi, ma in termini assoluti la spesa pro-capite degli italiani per l'abbigliamento è rimasta praticamente costante: 1.100 euro sia nel 2016, che nel 2006. Sopra di noi solo i ricchi lussemburghesi, austriaci e inglesi.

Chi in questi anni ha subito la maggiore contrazione sono state la Lituania, la Grecia, la Spagna, l'Irlanda e la Francia. Consistenti aumenti invece in Polonia, Lettonia, Regno Unito, Ungheria e Lussemburgo. In reazione a una spesa che si fa sempre meno sostenibile, sia economicamente per le famiglie, sia per l'ambiente (vedi Ripensare alla moda), si stanno moltiplicando gli appelli ad aderire al movimento no-buy.

L'idea è semplice: invece di acquistare nuovi abiti o scarpe, ti impegni a utilizzare le cose che già possiedi. Alcuni optano per scelte estreme, come il "no-buy year" (un anno senza acquisti) e documentano sui propri blog i loro progressi. Altri si impegnano a non acquistare per poche settimane o mesi o optare per opzioni "low-buy" con un limite massimo di spesa.

Una grande responsabilità nel fomentare comportamenti consumistici ce l'hanno i social media, come sostiene Katherine Ormerod, autrice di "Why Social Media is Ruining Your Life" (perché i social media rovinano la tua vita). "Molti di noi si sentono incoraggiati dai social a spendere al di sopra delle proprie possibilità."

Ma la tentazione di mettere le mani sull'ultimo prodotto può essere difficili da contenere. Avere cose nuove sembra buono, dice Ormerod. Ma riscoprire tesori sepolti nei nostri armadi potrebbe avere una risonanza emotiva anche maggiore. "Ma non se ne sente parlare nel contesto dei social media, ovviamente perché non fa guadagnare soldi a nessuno."

Attualmente, i cosiddetti 'influencer' (il sonno della ragione genera mostri) mostrano, consapevolmente o meno, articoli che sono loro regalati dall'industria della moda, o addirittura sono pagati per indossarli, ma Ormerod ha fatto voto di castità al riguardo, e si impegna a rifiutare prodotti o vestiti che le vengono donati. "Non è un buon messaggio da dare a chi fatica ad arrivare alla fine del mese."

Al di là di fenomeni web estemporanei che incitano al non acquisto, è evidente che tutta la filiera dell'abbigliamento andrebbe ripensata. La delocalizzazione ha fatto sparire dal nostro paese i piccoli produttori locali che davano lavoro e producevano capi artigianali di qualità.

Nello stesso tempo si è deciso di favorire lo sfruttamento di persone di paesi nel sud del mondo e un inquinamento preoccupante nei confronti dell'ambiente con conseguenze gravi, in particolare, per chi lavora e chi indossa capi realizzati in maniera non sostenibile.

La produzione 'green' è usata pretestuosamente da alcune aziende di dubbia moralità per fare dell'orrendo greenwashing, come H&M (vedi La bufala della moda sostenibile), Adidas (vedi Adidas e le scarpe realizzate con i rifiuti) e affini, ma è la loro stessa essenza di aziende multinazionali dello sfruttamento a creare danni all'ambiente e alla società.

In realtà sono molte le realtà locali che si impegnano da anni nel settore del no-buy, come l'associazione il Giracose di Nogarole Rocca, in provincia di Verona, che si occupa di riuso, anche di abbigliamento. Ma anche qui le cose non vanno sempre a meraviglia. Irene Scapinello ci scrive: "da qualche mese la filiera del tessuto usato è in crisi. C'è troppo usato, di bassa qualità, l'estero non assorbe più le nostre eccedenze."

Il costo troppo basso, dovuto a meccanizzazione, scarsa qualità e sfruttamento, sta creando un volume spaventoso di eccedenze di abiti usati di bassissima qualità, che sta minacciando anche le realtà più virtuose del nostro territorio.