La censura di YouTube è un problema annoso, strutturale, che solo recentemente è giunto alla notorietà a causa della rimozione di molti video non allineati allestabilishment in tema COVID-19 e vaccini.
Ora a fare le spese di algoritmi e avvocati è il controverso film Planet of the Humans, scritto e diretto da Jeff Gibbs, ma co-prodotto dal ben più noto Michael Moore, rimosso da YouTube a causa di un reclamo per violazione del copyright. La denuncia è stata presentata dal fotografo Toby Smith, allarmato dal fatto che il suo lavoro sia stato utilizzato in un film su cui lui non è d'accordo.
La tesi del film è che l'energia verde non può risolvere il problema dell'esaurimento delle risorse in una società in espansione, dato che la Terra è finita. Il film sostiene che le fonti di energia rinnovabile, compresa l'energia da biomassa, l'energia eolica e l'energia solare, non sono realmente rinnovabili. Tesi scomoda, tra gli ambientalisti, ma assolutamente condivisibile.
"Non sono d'accordo con il messaggio e non mi piace l'uso fuorviante dei fatti nella sua narrazione", ha dichiarato Smith. Alcuni secondi del video di Smith, Rare Earthenware, sono stati utilizzati nel film di Gibbs. Sono in molti a criticare l'opera, contraria a un certo modo di fare e propagandare le energie rinnovabili.
Il regista Jeff Gibbs ha negato qualsiasi violazione del copyright nel suo film, che ha raccolto oltre 8 milioni di visualizzazioni su YouTube. "Questo tentativo di smantellare il nostro film e impedire al pubblico di vederlo è un palese atto di censura da parte dei critici politici di Planet of the Humans", sostiene Gibbs. "È un uso improprio della legge sul copyright chiudere un film che ha aperto una conversazione seria su come parti del movimento ambientalista sono colluse con Wall Street".
Sebbene le fonti di filmati d'archivio siano accreditate alla fine del film di Gibbs, i produttori di Rare Earthenware affermano che ciò non costituisca un uso equo perché "il filmato è stato distorto per rappresentare una narrazione non voluta e per tale motivo piuttosto pericolosa".
Il filmato raffigura la miniera di carbone Shiguai nella Mongolia interna, in Cina, e viene utilizzata nel montaggio su come sono realizzati i pannelli solari e le turbine eoliche. Nel contesto del film, sembra non rappresentare un uso corretto delle immagini.
Ma è evidente che si tratta di un pietoso pretesto per censurare il documentario per scelta politica. Planet of the Humans ha invece ottenuto il supporto di PEN America, un gruppo che sostiene la libertà di parola. "Coloro che contestano il film hanno tutto il diritto di far sentire le loro preoccupazioni e le loro discussioni", ha dichiarato il direttore senior di PEN America Summer Lopez. "Ma prima di tutto, il pubblico ha anche il diritto essenziale di vedere il film di Gibbs e di esprimere il proprio giudizio".
Una tempesta di critiche da parte di ambientalisti ha seguito l'uscita di Planet of the Humans in aprile. Tra le altre cose, il film sostiene la dubbia affermazione che l'energia solare ed eolica sono potenzialmente dannose per l'ambiente quanto i combustibili fossili. Inoltre, sembra avvalorare la tesi che gli ambientalisti sono essenzialmente a libro paga delle potentissime società che fanno energia rinnovabile. Queste affermazioni hanno creato comprensibile sconquasso tra gli attivisti green.
Secondo Leah Stokes, assistente universitaria di Santa Barbara e autrice del libro "Short Circuiting Policy", "non è un caso che il film risieda solo su YouTube, di solito megafono delle fake-news, e che non sia riuscito ad arrivare nei cinema o nelle piattaforme come Netflix o Hulu o Amazon." Stokes ha definito il film "un regalo a Big Oil".
Tutte queste affermazioni di contorno confermano l'impressione, come detto, che la censura sia di tipo politico e non di copyright. Il problema sta nel manico: ovvero che la quasi totalità dell'informazione sia affidata a piattaforme private. Sia YouTube, che Facebook, che Twitter, ma anche le già citate Netflix, Hulu e Amazon, sono compagnie private.
In questo clima di concentrazione dell'informazione, si sente la mancanza di piattafrome pubbliche o ancor meglio di comunità. Abbiamo preferito affidare la comunicazione globale a siti web che, a parole, fanno della pluralità il proprio manifesto, ma che, nei fatti, si comportano in maniera opposta.
I nostri video, le nostre campagne, le nostre iniziative, sono ospiti nella casa privata dei giganti del web. E, a casa propria, ognuno fa quello che vuole, compreso censurare, o anche solo oscurare con algoritmi.
Quali che siano le ragioni che hanno indotto Google ad attuare la censura, se una politica di ostracismo verso le voci dissonanti, oppure semplicemente (e probabilmente) la poca volontà di affrontare cause e avvocati, il mondo non ha appigli, né politici, né tantomeno legali, per sindacare queste legittime azioni.