La moda veloce fornisce abiti economici, prodotti in serie, che hanno un enorme impatto sull'ambiente. Questi indumenti sono molto graditi dagli acquirenti perché sono convenienti e alla moda. Ma poiché non sono costruiti per durare e passano rapidamente di moda, vengono rapidamente scartati, accumulandosi in discarica. Inoltre, sono spesso realizzati in fabbriche dove i lavoratori sono impiegati per troppe ore, in condizioni non sicure, per paghe miserabili.
Negli anni 1960, i vestiti erano usati con molta parsimonia, e circa il 95% dei vestiti venduti erano fabbricati nel luogo in cui erano venduti. Ma le cose hanno cominciato a cambiare negli anni '70. Grandi fabbriche tessili aprirono in Cina, in Asia e America Latina. I grandi prosuttori occidentali, Benetton in testa a tutti, iniziarono a produrre in outsourcing.
Oggi, una piccola azienda che produce abbigliamento in Unione Europea non potrebbe competere. Hanno dovuto tutte chiudere o diventare meri importatori. E i capi economici hanno fatto esplodere il settore. Oggi, scrive Dana Thomas, autrice di “Fashionopolis: The Price of Fast Fashion and the Future of Clothes”, vengono prodotti e immessi sul mercato ottanta miliardi di abiti l’anno. Significa che, compresi i poveri del mondo, ciascun umano acquista 11 abiti l'anno. Ma la media non dice nulla: sono negli USA la media è 70 abiti per abitante. In UE poco meno.
Con tale risposta da parte dei consumatori, le aziende di moda sono passate dal rilasciare abiti stagionalmente (quattro volte l'anno) a uscite estremamente frequenti. I marchi più famosi fast fashion (Zara, Pull&Bear, Bershka -tutti e tre del gruppo spagnolo Inditex di Amancio Ortega-, H&M, Topshop, Mango) hanno imposto che nei negozi fossero presenti nuovi articoli ogni due settimane.
Sebbene ai consumatori possa piacere avere vestiti economici ed eleganti, la moda veloce è fortemente criticata per il suo impatto ambientale ed etico. Ne abbiamo parlato qui in H&M regina del greenwashing, Le bugie della moda veloce, Seconda mano contro moda veloce, Ripensare alla moda, Inquinamento da viscosa, Grandi marchi si bullano col riciclo in negozio.
Oltre all'enorme quantità di rifiuti nelle discariche, la moda veloce ha un impatto sull'ambiente attraverso le emissioni di carbonio. L'industria della moda è responsabile del 10% delle emissioni globali di CO2 ogni anno, secondo la Ellen MacArthur Foundation. Vale a dire più di tutti i voli internazionali e le spedizioni marittime messi insieme. I ricercatori prevedono che se le cose non cambieranno, entro il 2050 l'industria della moda consumerà un quarto del bilancio mondiale del carbonio.
Le emissioni di carbonio si verificano durante il trasporto dalle fabbriche ai punti vendita. Quindi si verificano nuovamente dal consumatore durante l'acquisto, di persona o online. Possono verificarsi un'ultima volta in cui il consumatore scarta il prodotto e viene portato in una discarica e talvolta bruciato.
Ma non è tutto. Dopo l’industria del petrolio, quella tessile è l’industria più inquinante per l’ambiente, per la quantità di pesticidi utilizzati per le piantagioni di cotone (il 18 per cento di quelli utilizzati in tutto il mondo), per le sostanze chimiche utilizzate per trattare i tessuti e poi ritingerli, per l'impossibilità di smaltire gli abiti in fibre non naturali in modo ecologico, per la quantità di acqua necessaria per produrre un capo di cotone (3000 litri per una camicia, 7000 se parliamo di jeans).
Inoltre, i vestiti realizzati con tessuti sintetici possono contenere microplastiche. Quando vengono lavati o messi discarica e sono soggetti a piogge, questi piccoli frammenti di plastica vengono scaricati nei sistemi di acque reflue e infine si fanno strada nell'oceano.
Gli studi hanno dimostrato che le fibre di plastica possono finire nello stomaco degli animali marini, alcuni finiscono per diventare frutti di mare (vedi Cozze alla plastica). Uno studio pubblicato su Environmental Science and Technology ha scoperto che in media più di 1900 fibre possono essere generate da un indumento di abbigliamento sintetico durante un singolo viaggio attraverso la lavatrice.
A tutto questo si aggiunge il problema maggiore, che è quello legato ai diritti dei lavoratori. La concorrenza tra i brand prevede infatti costi di produzione sempre inferiori per poter essere sempre più competitivi, imponendo alle aziende dislocate contratti con condizioni economiche e di lavoro spaventose.
Le fabbriche generano condizioni non sicure, i salari sono vergognosamente bassi e le ore lavorate sono eccessive. I lavoratori sono spesso esposti a sostanze e coloranti pericolosi. In molti casi, sono impiegati bambini e i diritti umani fondamentali sono violati, riferisce EcoWatch.
Quali sono le alternative? Il settore deve essere fortemente normato dalla politica, soprattutto dal lato dei consumatori. È poi necessario che ciascuno di noi consideri la qualità rispetto alla quantità e l'atemporalità rispetto alla moda. È inoltre necessario sapere se il produttore utilizza pratiche di lavoro sostenibili ed eque.
Si potrebbero anche acquistare oggetti di seconda mano. La maggior parte dei negozi dell'usato non solo danno nuova vita ai vestiti, ma donano parte dei ricavi in beneficenza. Poi ci sono altre pratiche di buonsenso, che sarebbero possibili solo in caso di capi di alta qualità: lavare il meno possibile e in maniera delicata, riparare gli strappi, le cerniere e i bottoni. Donare ciò che non si indossa più. Scambiare i vestiti con gli amici.
Solo col buonsenso e l'applicazione di tutti sarà possibile sconfiggere uno dei peggiori mali dell'umanità.